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Il senso e il nulla: Leopardi è un giovane d´oggi

“Bisogna proporre un fine alla propria vita per viver felice”. Leopardi, con così poco, appunta nelle pagine dello “Zibaldone di pensieri” ciò che alla fine non verrà più riconosciuto nell’epoca contemporanea: un fine prescritto, ossia viverla seguendo uno scopo ben fermo e congruente con la presunta natura della vita stessa. Già nella frase si legge indirettamente che la vita non ha fine: bisogna proporne uno alla propria, che altrimenti rimarrebbe sterile e nuda, immobile. Da grande pensatore della “caduta dell’occidente”, che per primo intuì, ben considera la vita come una tabula rasa, un foglio bianco: Leopardi sa che essa è vergine da ogni tipo di fine e di senso già scritti, è conscio della sua originaria vuotezza di scopi; ed è qui che ci offre una soluzione contro l’infelicità, che minaccia di insorgere dal “nulla” che il filosofo di Recanati così bene riuscì a cantare: la posa di uno scopo, saldo, a fondamento del raggiungimento della felicità nella vita dell’uomo.

Ma qual è la natura ultima di questo scopo? Quale la sua struttura ossea e le sue carni?

Giacomo lo sa: la volontà dell’uomo di porlo, di “immaginarselo”, di “fabbricarselo”: tutti termini, questi, che evidenziano la natura artificiale del senso che affiggiamo alla vuota bacheca della nostra esistenza. Ma, a quanto pare, questo manifesto umano non può evitare di comparire: “l’uomo può ed ha bisogno di fabbricarsi esso stesso de’ beni in tal modo”; il bisogno di combattere il senso di vuoto, di nulla, induce tutto ciò che è umano a porsi un fine, a scacciare i fantasmi dell’infelicità cosmica che deriva dalla vertiginosa verginità del senso della vita.

Ora, trasponendo queste riflessioni all’attualità c’è da chiedersi se questa coscienza sia radicata nella società ed in noi giovani, così spesso chiamati inetti e svogliati. Il nichilismo che sovente l’opinione pubblica appiccica alle vesti delle nuove generazioni proviene, io credo, da quell’ormai anacronistico sentore positivista e religioso che mai si è realmente spento nella società: chiamando assonnato e stanco il giovane si ribadisce quella concezione del “senso già scritto” della vita che proviene dal positivismo e dalla religione, tardando a comprendere che quel senso positivista o religioso è stato ormai sorpassato. E si dimostra di aver capito superficialmente Leopardi, che ammette sì di non comprendere l’inetto, ma non lo stigmatizza perché è conscio della relatività degli scopi che gli uomini si pongono.

Bisogna invece, io credo, dar tempo alla nuova giovane società di trovarsi, di comprendersi. Leopardi fu uno di noi giovani prima di noi giovani, perché avvertì la fine delle concezioni assolutistiche della vita proprio come noi ora le avvertiamo. Sentiamo l’intima necessità di “fabbricarci” il nostro fine, coscienti come il poeta che “tali fini vaglion poco in sé, ma molto i mezzi e le occupazioni”; Leopardi li chiama “gran beni a forza di assuefazione”, evidenziando quanto questi siano naturali, umani, quasi carnali. Questa “arte dello scopo” che sempre più si affina nel sottosuolo della società occidentale, soprattutto nei giovani, non è da attribuire, io credo, ad un nichilismo cosmico a cui i giovani si abbandonano, piuttosto al riconoscimento di questo nichilismo e alla presa di coscienza dell’ontologica e metafisica relatività dello scopo. Questa presa di coscienza non rimane però sterile, inerte e stanca, ma cerca di conformarsi alla società attuale. Ma questa conformazione deve ancora avvenire; quando la liquida coscienza della relatività verrà solidificandosi saremo davanti alla società futura: solo allora potremo procedere con le nostre considerazioni in merito alla nostra generazione.

Tommaso XIII Cl.


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